La sicurezza è un bene comune, intangibile, la cui assenza può mettere a rischio la nostra di libertà, il commercio, la cultura, la partecipazione alla vita pubblica e perfino il mercato immobiliare. La sicurezza è un requisito essenziale per la sostenibilità delle comunità urbane, un bene comune “strumentale” al pieno sviluppo e al benessere delle persone. In questo senso è un bene comune come l’aria, l’acqua e l’ambiente, che hanno bisogno di essere costantemente curati, mantenuti e protetti da tutti, non solo dai soggetti pubblici preposti.

Ciò premesso, la domanda che dobbiamo farci è: come possiamo proteggere il “bene comune sicurezza”?

L’art. 117 della Costituzione sancisce che lo Stato ha legislazione esclusiva su ordine pubblico e sicurezza. Dobbiamo però precisare che ordine pubblico e sicurezza (in specifico quella urbana) non sono esattamente la stessa cosa. Il mantenimento dell'ordine pubblico è compito e prerogativa esclusiva dei poteri pubblici attraverso le forze di polizia. Prerogativa con cui i cittadini non possono e non devono interferire. Invece, la sicurezza urbana è un bene comune di cui tutti i cittadini si devono sentire, individualmente e collettivamente, responsabili.

La sicurezza urbana è un concetto più ampio di quello di ordine pubblico, perché può comprendere anche, per esempio, il controllo del territorio in forme che non comportano l’uso della forza, ma solo una presenza vigile e informale da parte dei residenti.

Leggendo l’ultimo comma dellart. 118 della Costituzione apprendiamo che i cittadini possono avere un ruolo attivo nella cura dei beni comuni come la salute, l’istruzione, l’informazione, ecc. Questo ruolo potrebbero averlo, secondo logica, anche nella cura del “bene comune sicurezza”, nell’ambito del principio di sussidiarietà orizzontale a favore dell’interesse generale.

I cittadini, in qualche modo, già si prendono cura del “bene comune sicurezza”, ma lo fanno, nella maggior parte dei casi, a livello individuale. Lo fanno attraverso quella forma lodevole di civismo che spinge un qualunque cittadino a segnalare alle forze dell’ordine un fatto criminoso o situazioni potenzialmente dannose per la sicurezza della comunità, oppure con la messa a punto, nei propri spazi privati, di tutte quelle forme di prevenzione passiva che sottraggono agli autori di reato l’opportunità di commettere atti predatori.

Questo approccio individualista però contiene il rischio di sviluppare tra i membri di una comunità un atteggiamento NIMBY (come lo chiamano gli americani), Not In My Back Yard, "Non nel mio cortile". Atteggiamento in genere riferito ai membri di una comunità locale contrari alla realizzazione di opere pubbliche con rilevante impatto ambientale. Lo stesso tipo di atteggiamento si può associare anche a coloro che, agendo individualmente, ritengono importante eliminare lo spaccio di droga davanti alla propria casa, o ridurre i furti nel proprio condominio, non preoccupandosi se gli spacciatori si sono spostati due strade più in là o se i ladri operano in un’altra via del quartiere. Per proteggere e curare il “bene comune sicurezza” dovremmo invece “pensare come comunità” e “agire a livello di microambiente”, nell’ambito del proprio “spazio difendibile”, rappresentato dagli spazi privati e condivisi (spazi in cui avviene la maggior parte dei reati predatori).

Il controllo di vicinato si è dimostrato una risposta razionale ed efficace al fenomeno della microcriminalità e una cura della sindrome NIMBY. Esso è composto da una “attività pubblica”, partecipativa e sussidiaria alle funzioni svolte dalle Forze dell'ordine, che permette a queste ultime un controllo più minuzioso e specializzato del territorio, attraverso la collaborazione attiva dei cittadini; e una “attività privata” che contempla l’individuazione delle vulnerabilità comportamentali, strutturali e ambientali che, se non rimosse o mitigate, offrono l’opportunità di commettere reati predatori. È importante sottolineare il fatto che spesso le vulnerabilità ambientali insistono negli spazi pubblici. Ciò rende pertanto inevitabile la collaborazione tra il controllo di vicinato e i decisori locali per la loro mitigazione.

Il vero punto di forza del controllo di vicinato è la specifica conoscenza dei luoghi in cui si vive e si lavora. Questa conoscenza permette ai residenti, quasi istintivamente, di capire se sono presenti delle criticità che dovranno, in caso di flagranza di reato, essere prontamente riferite alle Forze dell'ordine. Saranno poi quest’ultime a valutare le segnalazioni e decidere tempistica e modalità di intervento. Quando invece queste criticità non sono pertinenti a un reato in corso, ma possono comunque favorire qualche forma di illegalità futura, dovranno essere segnalate ai decisori locali o alle forze dell’ordine, a secondo dei casi.

Bisogna notare che la capacità di interpretazione del contesto da parte dei residenti viene persa man mano che questi si allontanano dal loro “spazio difendibile”. Più si allontanano meno saranno in grado di interpretare i segnali, a volte deboli, provenienti dall’ambiente e che possono essere prodromici alla commissione di reati. Questo è l’effetto a cui sono soggette le cosiddette ronde e altre forme di vigilantismo, esperienze distanti dalla pratica del controllo di vicinato, anche in considerazione del fatto che con quelle modalità di sorveglianza si travalica la funzione sussidiaria del cittadino e si invade lo spazio dell’ordine pubblico che deve restare di esclusiva competenza delle forze di polizia.

Il controllo di vicinato è sempre stato un processo partecipativo, comunitario, solidale e collaborativo con le istituzioni locali, promuovendo un modello di società in cui i cittadini sono attivi, responsabili e solidali e si prendono cura del “bene comune sicurezza”. Come tutti i processi partecipativi, anche il controllo di vicinato necessita di governance.

Costituzione e Codice civile garantiscono la libertà di associazione dei cittadini per il perseguimento dei loro scopi, a condizione che questi non siano in contrasto con la Legge, Questi diritti sono comuni a tutte le forme di aggregazione e organizzazione dei privati cittadini. Per quel che concerne invece il coinvolgimento di questi nelle attività di sicurezza, nel passato abbiamo avuto le ronde cittadine, istituite col cosiddetto Decreto Maroni del 2008, che si sono rivelate un flop, proprio perché nel loro operato non era chiara la distinzione tra ordine pubblico e sicurezza urbana. Le ronde, infatti, hanno rappresentato più un problema che un aiuto per le forze dell’ordine.

Nel febbraio 2017, invece, con il decreto, convertito poi in legge, dell’allora Ministro degli Interni Minniti viene introdotto il principio della Sicurezza Integrata e la novità rappresentata dal fatto che i privati cittadini possono, in qualche misura, partecipare alla filiera della sicurezza (urbana). È però con i protocolli che decine di prefetture hanno sottoscritto con centinaia di comuni (ad iniziare dalla Prefettura di Lucca nel 2014), che viene finalmente valorizzata l’esperienza sociale del controllo di vicinato. In questi protocolli, in cui viene delineato il perimetro operativo del controllo di vicinato, vengono fissati i ruoli, le competenze e i limiti di partecipazione dei cittadini nelle attività di sorveglianza e definite le funzioni di sostegno e monitoraggio del progetto da parte delle autorità locali e delle forze di polizia. A questi riferimenti normativi andrebbero, infine, aggiunti i protocolli e la manualistica sviluppata dall’Associazione Nazionale Controllo di Vicinato, che descrivono in dettaglio il modus operandi dei gruppi di sorveglianza.

È grazie al principio di sussidiarietà, che i cittadini possono essere non soltanto utenti destinatari dei servizi con cui i poteri pubblici si “prendono cura” dei beni comuni, ma anche soggetti attivi e loro alleati nell’attività di produzione, manutenzione e sviluppo di quei medesimi beni comuni, mettendo a frutto le proprie competenze e la conoscenza del proprio territorio.

Una comunità sicura mantiene uno stato d’animo di tranquillità e assenza di timori. La sicurezza, in questa prospettiva, è un concetto diverso da quello di ordine pubblico: è un concetto completamente positivo che trasmette un senso di pienezza, grazie al quale ognuno di noi può realizzare nella propria comunità il suo progetto di vita.

 Leonardo Campanale – Presidente onorario ANCDV

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