Intervento del Presidente onorario di ANCDV al Convegno nazionale “Sicurezza Partecipata e Sussidiarietà Orizzontale” - 8 ottobre 2022 - Venezia
Nel mio intervento mi focalizzerò soprattutto sui processi partecipativi, inevitabili corollari del principio di sussidiarietà orizzontale[1].
Esempi avanzati di comunità di vicinato e partecipazione
Se guardiamo all’esperienza più antica e avanzata di Controllo di Vicinato in Europa, il Neighbourhood Watch inglese, ci rendiamo conto che il naturale sviluppo del Controllo di Vicinato è la Comunità di Vicinato. Le attività del Neighbourhood Watch UK, focalizzate inizialmente sulla prevenzione dei furti in casa, in questi anni si sono man mano estese a molti altri problemi di sicurezza che affliggono le loro comunità. Questa tendenza si è manifestata anche in altre esperienze di Neighbourhood Watch in Europa, inclusa l’Italia. Ad esempio, nel loro insieme, queste associazioni, oltre ai reati predatori, si occupano di maltrattamento degli animali domestici, comportamenti antisociali, bullismo e cyberbullismo, sfruttamento e abuso sessuale dei minori, mediazione dei conflitti tra vicini, monitoraggio dell’esclusione sociale, corruzione, radicalizzazione dei giovani, cybersecurity, abusi domestici, maltrattamento degli anziani, reati ambientali, protezione dei disabili, molestie per strada, videosorveglianza, illuminazione delle strade, attenzione verso le vittime di reato e potrei proseguire con un lungo elenco.
Per ognuno di questi problemi i Neighbourhood Watch nei vari paesi hanno sviluppato protocolli di monitoraggio e prevenzione che i loro membri, ma anche i cittadini che non fanno parte di quelle reti, possono adottare. Il cittadino viene visto come attore della prevenzione a 360 gradi, comprendendo nelle sue attività anche quelle di monitoraggio e mediazione.
Diffidenza o partecipazione
Come ricordavo ieri durante l’evento dell’European Neighbourhood Watch Association (EUNWA), le comunità possono anche essere campi di battaglia, quartieri difficili in cui l’aumento dei problemi economici e il disagio sociale ne impediscono la coesione, allontanando i cittadini dalla politica e diminuendo il desiderio di partecipare alla vita della comunità. I residenti di una micro-comunità hanno però un vantaggio e un punto di forza: conoscono bene, nell’insieme, i loro luoghi e le persone e intorno a questa conoscenza si possono formulare strategie di partecipazione e prevenzione, a condizione che queste micro-comunità non si trasformino in comunità “contro”: parti di comunità contro altre parti di comunità, diffidenti verso le istituzioni e sfiduciate rispetto al ruolo svolto dalle Forze dell’ordine.
Siamo pronti a partecipare?
Generalmente è più facile delegare (sempre di meno, visto l’aumentato tasso di astensionismo alle ultime elezioni politiche in Italia) e protestare, che partecipare e costruire. Per questo nelle nostre attività quotidiane di promozione del progetto di Controllo di Vicinato dovremmo non solo incoraggiare la prevenzione contro i reati predatori ma anche sostenere l’istituzione di processi partecipativi per favorire il dialogo tra cittadini e istituzioni, in modo da rinforzare o ristabilire quella fiducia che ne è il prerequisito.
La domanda che però dovremmo farci è la seguente: i cittadini e le Istituzioni locali sono, soprattutto culturalmente, pronte a questo tipo di partecipazione?
Se si escludono le lodevoli eccezioni di Toscana, Emilia-Romagna e, recentemente, la Puglia che hanno specifiche leggi per favorire i processi partecipativi, la risposta è no. I cittadini non sono abituati né stimolati a partecipare, ideare, contribuire con proposte alla soluzione dei problemi della propria comunità e nemmeno a manifestare in modo strutturato i propri bisogni. Se va bene ci si galvanizza su un “sì” o su un “no”. “Sì a questo, no a quello” e, soprattutto, “Non nel mio giardino”. Per la gran parte dei cittadini è decisamente più facile e attrattivo protestare, e i social sono lo strumento principe di questa attitudine.
Processi partecipativi: chi fa cosa
I processi partecipativi non sono cose facili da realizzare. Non possono essere gestiti dai comitati, né dalle istituzioni, né da strutture di cui sono emanazione diretta. Questi processi richiedono percorsi strutturati, un preciso metodo di comunicazione e la più ampia partecipazione dei cittadini, e devono essere gestiti da organizzazioni neutre e specializzate. In ogni caso, è vero che i cittadini non sono abituati a partecipare, ma è anche vero che quando questi vengono coinvolti in modo strutturato, potendosi scambiare opinioni, esprimere bisogni e proporre soluzioni, ci prendono gusto ed è poi difficile negargli questa forma di partecipazione.
Le amministrazioni locali e la politica, se oltre a promuoverli, gestissero direttamente questi percorsi, correrebbero il rischio di influenzare le proposte espresse dai cittadini. Per questo è fondamentale che questi processi siano gestiti da un mediatore neutro, mantenendo su due binari paralleli i processi politici decisionali e i processi partecipativi. Questi poi possono convergere o divergere quando, alla fine del percorso partecipativo, vengono restituiti i risultati.
I gruppi di Controllo di Vicinato, portatori di interessi specifici e rappresentanza minoritaria dell’intera comunità, non sono gli organismi più idonei per gestire direttamente i processi partecipativi, poiché non potrebbero garantire quella neutralità che questi processi richiedono. Possono però esigerli e promuoverli, dipendentemente dal contesto e dal tema in questione.
Dobbiamo però partire dal realistico assunto che chi non ha particolari problemi, non è naturalmente motivato a farsi coinvolgere nei processi partecipativi. Sono invece più motivati i cittadini già animati da spirito civico o coloro che sono arrabbiati o hanno problemi con le istituzioni, e non sono ancora caduti nella spirale di un individualistico disinteresse per quello che avviene nella propria comunità. Soprattutto per quest’ultima categoria di cittadini è fondamentale che il percorso partecipativo sia ben strutturato per evitare che degeneri in sterile protesta.
Che fare?
Dobbiamo introdurre con convinzione nel dibattito pubblico il principio che la sicurezza, in tutti i suoi aspetti, è un affare che riguarda anche tutti i cittadini e non solo le Forze dell’ordine e le Istituzioni, in modo che risulti evidente l’importanza e l’urgenza della partecipazione. Come associazione, non possiamo pertanto limitarci a diffondere la cultura della prevenzione senza diffondere anche quella della partecipazione.
Nella nostra narrazione, oltre alla prevenzione e alla partecipazione, non dovremmo trascurare la sicurezza integrata. Questa è intesa come l’insieme degli interventi assicurati dai diversi livelli di governo, completati dalla partecipazione attiva dei cittadini e dal welfare di comunità, caratterizzato dall’insieme delle azioni che istituzioni e comunità territoriali realizzano per creare un senso condiviso di benessere e di maggiore inclusione sociale. Con le istituzioni va condiviso l’obiettivo non solo di garantire la tutela dell’integrità fisica delle persone e dei loro beni, ma anche di offrire, attraverso l’azione capillare delle micro-reti di prossimità composte dall’aggregazione dei singoli cittadini, associazioni ed enti, una protezione complessiva della comunità.
La sicurezza integrata non può però prescindere, a livello micro, dalla partecipazione attiva dei cittadini ai processi di conoscenza, ideazione, progettazione e valutazione delle dinamiche presenti nella comunità quando queste, in qualche modo, mettono a rischio la tranquillità, la fruizione di servizi e la sicurezza dei cittadini, sia che si tratti, ad esempio, di ripensare all’arredo urbano di una piazza, all’installazione di telecamere di sorveglianza o all’attivazione di un servizio di supporto a soggetti fragili o vittime di reato.
È chiaro che qui non stiamo chiedendo ai cittadini di improvvisarsi urbanisti, esperti di sicurezza urbana o quant’altro. Chiediamo invece ai cittadini di esigere l’istituzione di processi partecipativi attraverso i quali le loro energie possano (e debbano) essere valorizzate, manifestando in modo organizzato e strutturato i loro legittimi bisogni, la cui soddisfazione possa in qualche forma essere incorporata nelle fasi di progettazione e realizzazione degli interventi sul territorio.
La partecipazione deve diventare un punto di forza del nostro programma. La seconda gamba su cui si regge il nostro progetto. Ci vorrà tempo ma, ottimisticamente, vedo un futuro nelle comunità di vicinato.
Alla luce di quanto esposto, chiedo al presidente di ANCDV di mettere in agenda alla prossima assemblea nazionale dei soci la proposta di cambiare nome alla nostra associazione, da Associazione Nazionale Controllo di Vicinato ad Associazione Nazionale Comunità di Vicinato. Cambiamento che non può ovviamente ridursi ad un puro atto amministrativo, ma che sia il risultato di un cambiamento culturale nella nostra associazione, frutto di un serio processo di ponderazione su quello che già siamo e quello che vogliamo essere in futuro. L’acronimo della nostra associazione non cambierà, ma in futuro la “C” di ANCDV si dovrà poter coniugare non solo con Controllo ma anche con Comunità, Civismo, Cura e Cultura.
Leonardo Campanale – Presidente Onorario ANCDV
[1] Costituzione Italiana, art. 118, ultimo comma:" Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà".