Intervento al Convegno nazionale dell’Associazione Nazionale Controllo di Vicinato «Sicurezza partecipata e sussidiarietà orizzontale» – 8 ottobre 2022 – Venezia

 

di Mauro Bardi (Membro del Comitato Scientifico di ANCDV)

Vengono in questa sede presentati spunti di riflessione: non siamo di fronte, quindi, ad un intervento che prevede una ipotesi di partenza e di una tesi di arrivo, ma si tratta della proposta di taluni aspetti che possono assumere carattere di interesse per il nostro argomento generale. 

Il primo aspetto che si vuole, brevemente, affrontare è rappresentato dal contenuto del principio di sussidiarietà. 

Il principio di sussidiarietà rappresenta una tecnica di carattere amministrativo che ha per scopo il trasferimento di funzioni (o anche il solo svolgimento di funzioni), tipiche di certi organi e tratti dello Stato centrale nei confronti di altri soggetti ed enti. 

All’interno del principio si possono distinguere: 

  • la sussidiarietà verticale nell’ambito della quale lo Stato centrale può trasferire alcune funzioni di carattere amministrativo ad enti locali territoriali di grado inferiore, quindi: le regioni, città metropolitane e comuni. 
  • la sussidiarietà, definibile come orizzontale, in base alla quale lo Stato centrale e le altre pubbliche autorità (anche locali) possono favorire e rafforzare l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati. Quindi, sulla base di questo principio, alcune funzioni tipiche dei pubblici poteri possono essere anche svolte dai cittadini, dai privati cittadini in forma singolare o in forma associata. 

Svolta tale premessa argomentativa possiamo affermare come, la teoria, l'attività e la prassi del Controllo di Vicinato possano essere iscritte nell'ambito del principio di sussidiarietà orizzontale: il Controllo di Vicinato, infatti, può contribuire al miglioramento della sicurezza urbana (o del senso della sicurezza) portato e organizzato non da pubblici poteri, ma dall'iniziativa dei cittadini. 

Su questo dobbiamo approfondire e concentrarci innanzitutto su quella che è la missione basica dell'attività del Controllo di Vicinato. 

Questa si individua – innanzitutto – nel tentativo di predisporre strategie di prevenzione (o di minimizzazione dell’impatto e degli effetti) di alcuni reati: segnatamente di reati contro il patrimonio, ed in particolare la commissione di furti in abitazione (e tutti gli approfittamenti patrimoniali che si possono verificare all’interno delle mura domestiche).

Nell’ambito di tale prospettiva (ed insieme di propositi) il Controllo di Vicinato (nella sua teoria e nella sua prassi) si occupa, prima di tutto, di procedere ad una tipizzazione (o catalogazione) delle offese contro il patrimonio (e specificatamente quelle indicate sopra) e poi di individuare le tipiche strategie relative alla prevenzione di tali offese.

Tale attività conduce, sempre nella teoria e nella prassi, alla tipizzazione dei comportamenti, degli agiti, dei modi di fare dell’autore nell'ambito dei suddetti reati contro il patrimonio. A questo punto, però, manca un tassello: manca un aspetto al quale l'attività, la teoria e la prassi del Controllo di Vicinato, dovrebbe rivolgere la propria attenzione: intendiamo riferirci alla vittima dei reati contro il patrimonio. 

Il Controllo di Vicinato, in realtà, prende in considerazione la vittima dei reati contro il patrimonio, solo da un punto di vista: dal punto di vista della vittima potenziale. 

In altre parole: la vittima è presa in considerazione nella fase spazio/temporale della pre-vittimizzazione, ad esempio: attraverso la individuazione di quelle che potrebbero essere delle vittime ideali, delle vittime potenziali ed astratte; potremmo dire veramente le vittime ideal-fisiche di reati contro il patrimonio. In tal modo, infatti, vengono anche individuate tutte quelle vulnerabilità ambientali, materiali e personali che possono favorire o facilitare la commissione di reati contro il patrimonio. 

Ma per quanto concerne, invece, la vittimizzazione vera e propria; cioè per quanto riguarda il momento in cui l'offesa si sia consumata ed abbia creato un danno patrimoniale o non patrimoniale nei confronti della vittima, che prospettive possiamo incontrare?

Lo spostare il focus nei confronti delle vittime di reato, cioè di coloro che hanno subito una vittimizzazione, ci porta a ripensare la funzione non solo di tutte quelle strategie di carattere preventivo, ma anche di tutti i possibili interventi di carattere successivo alla commissione del reato.

Innanzitutto possiamo pensare e riflettere alla questione del diritto penale, cioè, in particolare, alla funzione della pena (in genere la: reazione penale); ma tale funzione, però, non la consideriamo in riferimento all'autore e al suo operato dannoso o pericoloso, ma in relazione alla vittima. A quella vittima in capo alla quale si coagulano, spesso, vaghe aspettative di giustizia. 

Pertanto ci chiediamo: quale è la funzione della punizione (in genere: la reazione penale) nella prospettiva della vittima di reato? 

Possiamo avere diverse visioni, diverse concezioni della pena e della reazione penale.

Procediamo ad esaminarle proprio in relazione prospettica nei confronti della vittima. 

Si può introdurre una visione retributiva della punizione: la concezione secondo la quale, al male che è stato commesso dall’autore con il reato, sia necessario rispondere con il male corrispettivo che è costituito da una pena afflittiva. 

Questa visione retributiva della pena ha effetti o ristorativi o benefici sulla vittima? 

A fronte di tale interrogativo è lecito nutrire alcuni dubbi.

Su questo punto si potrebbe fare rinvio al pensiero di uno dei più considerati e stimati studiosi di diritto penale che è Giovanni Fiandaca. 

L’Autore afferma che: 

«…gli studi di psicologia della vittima, attualmente disponibili, mettono in evidenza che il cuore delle vittime è attraversato da reazioni contraddittorie e da sentimenti in parte oscuri, cui si aggiungono veri e propri aspetti traumatici nel caso dei crimini più gravi. Per elaborare la sofferenza e per conseguire la riparazione morale dei danni patiti non basta alla vittima la soddisfazione derivante da una pena afflittiva applicata al colpevole. Piuttosto affiora l'esigenza di un processo psicologico di elaborazione. Del lutto della vittimizzazione, che ha indotto a prospettare un nuovo binario della giustizia penale finalizzato alla rieducazione delle vite»[1].

Pertanto, sintetizzando le parole di Fiandaca, non necessariamente l'applicazione della sanzione, intesa come pena retributiva ed afflittiva, può svolgere effetti utili nei confronti della vittima. La pena, infatti, riguarda l’autore, e la vittima rischia di restare senza soddisfazione e riparazione. 

Sulla base di un’altra concezione, la pena può essere considerata in una prospettiva di carattere preventivo. La stessa, quindi, può essere intesa come strumento di pressione dissuasiva (deterrente) nei confronti della commissione dei reati. Anche in questo caso tale funzione della pena, non svolge particolare effetti benefici o utili nei confronti della vittima di reato. La deterrenza e la dissuasione, infatti, sono segnatamente rivolte nei confronti del potenziale autore o, nel caso della prevenzione speciale nei confronti del concreto autore, ma non coinvolgono in via immediata e diretta la vittima ed il pregiudizio che ha subito per effetto del reato. 

Allo stesso modo anche una visione rieducativa della punizione, non è in grado di dispiegare particolari effetti nei confronti della vittima del reato, ma si incentra in modo notevole nei confronti della figura dell’autore. Un autore inteso come soggetto che necessita di una riabilitazione sociale. 

Si rende quindi necessario introdurre una prospettiva e una visione più moderne. 

Una visione che chiama in causa la cosiddetta giustizia riparativa: ovvero una serie di procedure ed interventi che, coinvolgendo – anche in forma dialogica – l’autore, la vittima e la comunità osservante, siano in grado – per quanto possibile – di superare gli effetti negativi della condotta delittuosa e ricucire lo strappo comunicativo e di comprensione che l’offesa ha creato. 

Fatta questa premessa circa la funzione della reazione penale (e reazione ordinamentale), sulla prospettiva delle pene in relazione non tanto all'autore ma piuttosto in relazione alla vittima, possiamo porci un interrogativo, un problema; che non è solo un problema ma è anche una sfida. 

Rimanendo nell'ambito del principio di sussidiarietà orizzontale che abbiamo esposto in precedenza: possiamo trasferire l'impegno, la teoria e la prassi del Controllo di Vicinato, nell'ambito della attenzione verso le vittime? 

Ricordiamo: nella premessa svolta abbiamo introdotto il concetto in base al quale, la teoria, la prassi del Controllo di Vicinato si occupano della prevenzione, della tipizzazione delle strategie di prevenzione, della tipizzazione delle offese, della tipizzazione del comportamento dell’autore. La vittima di reato è presa in considerazione solo come vittima potenziale: quindi è, prevalentemente o quasi esclusivamente, esaminata la fase spazio/temporale della pre-vittimizzazione. In linea di massima, possiamo quindi osservare, come la teoria e la prassi del Controllo di Vicinato non abbiano a che fare direttamente con la vittima effettiva, con chi effettivamente ha riportato un pregiudizio per effetto del reato. 

A questo punto della esposizione possiamo introdurre una fonte normativa che, ai fini del nostro argomento generale, può risultare molto rilevante. 

In particolare, ci riferiamo alla Direttiva numero 29 del 2012 dell'Unione europea (che è stata recepita in modo non particolarmente completo all’interno del diritto italiano con il Decreto Legislativo numero 212 del 2015) che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (è da notare che, nell’ambito della categoria delle vittime di reato, vengono inseriti tutti coloro che hanno subito un pregiudizio per effetto di un illecito penale, e non solo le vittime di determinati reati – quali, ad esempio, la violenza domestica o la violenza di genere). 

In particolar modo facciamo riferimento agli articoli 8 e 9 della suddetta Direttiva. 

L'articolo 8 individua i centri e i servizi di assistenza alle vittime. In particolare il comma 4 afferma che i servizi di assistenza alle vittime possono essere istituiti come organizzazioni pubbliche o non governative (quindi private). In questo tratto viene richiamato il principio di sussidiarietà orizzontale, all’interno del quale, soggetti che non appartengono a organizzazioni pubbliche, si occupano di svolgere attività che sono tipiche dei pubblici poteri (la assistenza alle vittime di reato). 

Quindi l'articolo 8 della Direttiva ci indica che l'assistenza alle vittime di reato, possa essere svolta dai privati, anche in forma di volontariato, in forma di ente del Terzo settore. 

L'articolo 9 della direttiva, poi, individua l'assistenza prestata dai centri, dai servizi di assistenza alle vittime di reato, in particolar modo: 

  • informazioni, consigli e assistenza in materia di diritti delle persone offese;
  • informazioni su eventuali e pertinenti servizi specialistici (sociali e sanitari) di assistenza;
  • sostegno emotivo, ove disponibile psicologico, consigli relativi agli aspetti finanziari e pratici derivanti dal reato;
  • consigli relativi al rischio e alla prevenzione della vittimizzazione secondaria e in particolar modo, della reiterazione della vittimizzazione. 

Vediamo di tirare le fila dei discorsi svolti e di giungere ad una sorta di conclusione.

Innanzitutto: ci troviamo di fronte a due strutture che denotano un certo parallelismo.

Da un lato abbiamo i gruppi del Controllo di Vicinato che, nell'ambito dell’esercizio di un principio di sussidiarietà orizzontale, si occupano della attenzione nei confronti della prevenzione di determinati reati (come dettagliato in precedenza). 

D’altro canto abbiamo i centri di assistenza alle vittime di reato che, sempre nell'ambito della realizzazione e dell'applicazione di un principio di sussidiarietà orizzontale si occupano di assistenza alle vittime di reato. 

Ci possiamo chiedere, quindi, i centri, i soggetti che si occupano di Controllo di Vicinato, possono anche occuparsi di vittime? 

Abbiamo già notato che si tratta di due strutture che presentano dei parallelismi. 

Il Controllo di Vicinato ed i praticanti del Controllo di Vicinato si distinguono per determinate specializzazioni, specializzazioni nei confronti della prevenzione di reati contro il patrimonio. I centri di assistenza alle vittime, per contro, si caratterizzano per una particolare specializzazione di carattere vittimologico (operare con le vittime di reato è un'attività estremamente delicata. C’è uno dei brocardi della vittimologia che dice "first of all no more harms", cioè "prima di tutto non si fanno danni ulteriori alle vittime"). 

E’ possibile però che i gruppi del Controllo di Vicinato possano prestare una prima assistenza alle vittime di reato (prima alle vittime di reati contro il patrimonio, poi anche eventualmente nei confronti delle vittime di altri reati), affinché queste vengano indirizzate in modo adeguato verso i centri di assistenza alle vittime per essere seguite in modo competente e specializzato?

In questo senso i centri per il Controllo di Vicinato potrebbero essere degli intercettatori di vittime e potrebbero direzionare le vittime nei confronti dei centri di assistenza.

È chiaro che per realizzare questo disegno sia necessaria una certa organizzazione. 

Una organizzazione all'interno dei centri del Controllo di Vicinato, ed una organizzazione all'interno dei centri di assistenza alle vittime di reato. Ma specialmente un coordinamento ed un dialogo continuo tra le due suddette strutture.

[1] G. Fiandaca, Prima lezione di diritto penale, Laterza, Bari-Roma, 2017, p.16.

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